Oggi l’Italia non dispone di reattori nucleari e l’opinione pubblica italiana è generalmente fortemente contraria all’impiego dell’energia atomica. Un tempo le cose furono però ben diverse. L’Italia fu uno dei paesi pionieri dell’energia nucleare, che ebbe uno sviluppo formidabile nei primi anni Sessanta. Nel 1966 l’Italia era il terzo produttore mondiale di energia atomica, dietro solo a Stati Uniti e Gran Bretagna. Dopo una fase di forte espansione seguì un periodo di stallo e alla fine l’intero settore venne smantellato in seguito al referendum del 1987. Ripercorriamo ora le principali tappe del cammino nucleare italiano
Anni 50 e 60
1955: Si tiene a Ginevra la conferenza “Atomi per la Pace”. Questa conferenza segue il discorso del presidente americano Eisenhower del 1953, secondo il quale l’energia atomica andasse usata per scopi pacifici. Già nel 1955 le autorità italiane decidono per la creazione di un impianto nucleare, situato a Latina (precisamente a Borgo Sabotino). I lavori cominciano il primo novembre 1958 e si concludono il 12 maggio 1963. La centrale diviene operativa il primo gennaio 1964. Nel 1959 iniziano i lavori per la seconda centrale elettronucleare, situata a Sessa Aurunca (provincia di Caserta). Essa entra in funzione il primo giugno 1964, appena cinque mesi dopo l’impianto di Latina. Il primo gennaio 1965 entra poi in funzione la centrale di Trino Vercellese, denominata “Enrico Fermi”, iniziata nel 1961. Questo vero e proprio boom porta l’Italia, come già accennato, ad essere il terzo produttore mondiale di energia dall’atomo. Nel 1970, dopo nove anni, iniziano i lavori per un nuovo impianto: si tratta della centrale di Caorso (Provincia di Piacenza) che entra in servizio il 23 maggio 1978. Nel 1975 nel frattempo l’Italia adotta il primo “Piano Energetico Nazionale”, piano che finalmente delinea le reali necessità energetiche del paese, fino a quel momento non comprese pienamente e in maniera sistematica. Il piano prevedeva tra le altre cose un forte sviluppo dell’energia elettronucleare, da realizzarsi attraverso la costruzione di diverse nuove centrali. Viene progettata una nuova centrale a Trino Vercellese, mai realizzata. Il progetto per un nuovo impianto nucleare a Montalto di Castro (provincia di Viterbo) trova invece la luce: nel 1982 iniziano i lavori.
Anni 80
Tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80’ l’idea sul nucleare cambia completamente. Nel 1979 un grave incidente colpisce l’impianto di Three Miles Island (Pennsylvania, Stati Uniti), mentre nel 1984 si registra il gravissimo incidente di Cernobyl (Ucraina Centro-Settentrionale). Fino a quell’anno tutti gli impianti nucleari sono attivi e funzionanti, ad esclusione di quello di Sessa Aurunca, che viene fermato nel 1982 a causa di un guasto (l’impianto sarà poi considerato antieconomico). Nel 1987 si tiene il famosissimo referendum abrogativo sul nucleare: l’80,7% dei votanti si dichiara contrario all’uso dell’energia nucleare. Tra il 1988 e il 1990 tutti gli impianti ancora funzionanti vennero spenti definitivamente. La centrale di Montalto di Castro, in costruzione al momento del referendum, fu convertita in centrale a ciclo combinato.
Anni 2000
Tra il 2005 e il 2008 i prezzi di petrolio e gas naturale subiscono una forte impennata. Questo porta nel 2008 il governo Berlusconi IV a formulare un piano per l’energia nucleare. Il piano prevedeva la costruzione di dieci centrali, che avrebbero fornito il 25% dell’elettricità nazionale. Il 24 febbraio 2009 il governo italiano sigla con quello francese un accordo per l’implementazione di nuovi reattori. L’accordo interessa L’Enel e la principale società elettrica francese ( Edf) e punta alla realizzazione di almeno quattro reattori nucleari entro il 2020. Il 12 e 13 giugno 2011 si svolge però un nuovo referendum abrogativo. Il referendum comprende quattro quesiti, di cui uno dedicato al nucleare. Il 94,05% si esprime contro di esso. Si tratta di un’avversione ancora più massiccia che nel referendum del 1987.
Il Parco Nazionale del Gran Paradiso è uno dei parchi nazionali più conosciuti d’Italia e una delle aree protette più grandi delle Alpi.
Storia
Il Parco del Gran Paradiso è il più antico parco nazionale d’Italia, istituito il 3 dicembre del 1922. La sua creazione è profondamente legata alla salvaguardia di una singola specie animale: lo stambecco alpino (capra ibex). Lo stambecco era un tempo assai diffuso su tutto l’Arco Alpino ma la caccia spietata lo ridusse notevolmente di numero già durante l’età moderna. Il motivo di tale caccia era legato alla prelibatezza della carne, alle virtù di alcune sue parti considerate medicinali, e alle sue corna erano poi un trofeo assai ambito. La caccia fu talmente spietata che già nei primi anni dell’ottocento si riteneva praticamente estinto, finché l’ispettore forestale valdostano Joseph Delapierre ne scovò un centinaio di esemplari nei remoti valloni del Gran Paradiso. Nel 1821 il re di Casa Savoia Carlo Felice emanò una regia patente che proibiva la caccia allo stambecco. Questa decisione fu presa non per principi ambientali ( estranei alla mentalità dell’epoca) ma per la volontà del re di poter cacciare in esclusiva questi rari animali.
Nel 1850 re Vittorio Emanuele II di Savoia, all’età di trent’anni percorse l’area dell’attuale parco. Egli partì da Champorcher e attraverso la Finestra di Champorcher raggiunse Cogne. Stupito dalla varietà della fauna decise di istituire una riserva di caccia.La Riserva Reale fu ufficialmente istituita nel 1856 e comprendeva un territorio più vasto di quello del parco attuale (una porzione verso nord-est si estendeva anche nei comuni di Fénis, Brissogne, Valgrisenche e Champdepraz oggi non facenti parte dell’area protetta). Il lascito più importante di questo periodo fu una fitta rete di mulattiere, costruita per permettere alla corte di spostarsi nelle battute di caccia (oltre 300 chilometri in totale). Le battute di caccia del re erano imponenti e impiegavano fino a 250 uomini, reclutati tra i valligiani. Il re si mostrava affabile e spesso conversava con la gente del posto. Egli era descritto come un grande tiratore ma in realtà giocava una sorta di “tiro al bersaglio”. Le battute di caccia spesso si risolvevano in decine di stambecchi o camosci uccisi. Nonostante questo il re sceglieva esclusivamente maschi adulti come bersagli e risparmiava i cuccioli e le femmine,questo portò a un forte aumento della popolazione di stambecchi.
Generalmente il re visitava la riserva in agosto e vi si tratteneva per diverse settimane. Aveva un percorso abituale e si muoveva tra le diverse case di caccia sparse per il territorio: generalmente partiva da Champorcher e valicava la Finestra di Champorcher per discendere a Cogne( sostando nella casa di caccia di Dondena). In seguito raggiungeva la Valsavarenche passando dal Colle di Lauson e sostando nella casa di caccia di Lauson. Poi proseguiva per Ceresole Reale sostando al colle del Nivolet e proseguiva in Valle dell’Orco fino a Noasca. Anche i successori di Vittorio Emanuele II continuarono la caccia ma Vittorio Emanuele III, più colto e meno affabile con i valligiani del nonno, cambiò orientamento e decise, nel 1919, di cedere allo Stato i territori del Gran Paradiso di sua proprietà con i relativi diritti, indicando come condizione che si prendesse in considerazione l’idea di istituire un parco nazionale per la protezione della flora e della fauna alpina.
Il 3 dicembre 1922, nei primi giorni di Governo Mussolini, venne istituita la Commissione reale per il parco. La gestione era affidata alla Commissione Reale del Gran Paradiso che istituì un nuovo servizio di guardaparco che reintegrò le vecchie guardie che ne fecero richiesta. Nel 1933 la Commissione Reale venne però abolita ed iniziarono i tempi bui del parco: la gestione passò al ministero fascista dell’Agricoltura e delle Foreste. La sorveglianza, affidata alla Milizia Nazionale Forestale, divenne una sorta di servizio punitivo: venivano mandati lì malfattori e antagonistici politici, spesso non abituati alla rigidità della montagna, ad espiare le proprie pene (una specie di “piccola Siberia” italiana). La vigilanza perse d’efficacia e riprese il bracconaggio. A questo si aggiunse la guerra con la scarsità dei viveri che portò ad un aumento esponenziale delle uccisioni degli animali selvatici. Nel 1947, a guerra conclusa, erano rimasti appena 400 stambecchi nel territorio del parco. Lo stesso anno venne istituito ufficialmente il Parco Nazionale e nelle sue vicinanze, nel castello di Sarre presso Aosta, nel 1948 il professore Renzo Videsott istituì la prima associazione ambientalista italiana ( Pro Natura).
Situazione geografia generale
Il Parco comprende porzioni di 13 comuni: 6 piemontesi (Ceresole Reale, Noasca, Locana, Ribordone, Ronco Canavese e Valprato Soana) e 7 valdostani (Aymavilles, Cogne, Introd, Rhemes-Saint-Georges, Rhemes-Notre-Dame, Villenueve, Valsavarenche). La superficie complessiva del parco è di 73.043 ettari. La popolazione complessiva dei 13 comuni è di 8400 abitanti, ma coloro che vivono direttamente nei confini dell’area protetta sono solo 300. Gran parte del Parco è quindi disabitato, essendo costituito da terreni di alta quota.
Orografia
Il Gran Paradiso è l’unico massiccio montuoso culminante a oltre 4000 metri interamente in territorio italiano. Il parco comprende cinque valli principali: Val di Rhêmes, Val di Cogne, Valsavarenche, Valle dell’Orco e Val Soana. Il territorio del parco è ammantato da 59 candidi ghiacciai, più estesi sul lato valdostano, di cui almeno 29 sono costantemente monitorati dai guardaparco. Si tratta di ghiacciai perenni ma relativamente recenti essendosi formati durante la “piccola glaciazione” del secolo XVII.
Dalla cima più alta (4061 m) parte la dorsale che divide Cogne da Valsavarenche la quale, scendendo verso Aosta, si impenna due vette dell’Herbétet (3778 m) e della Grivola (3969 m). Sul versante piemontese si stagliano il Ciarforon (3642 m), la Tresenta (3609 m), la Becca di Monciair (3544 m). Queste montagne sono facilmente individuabili, da un occhio esperto, anche dalla pianura torinese.La Torre del Gran San Pietro (3692 m) e i Becchi della Tribolazione (3360 circa) si trovano nell’alto vallone di Piantonetto; il punto di osservazione privilegiato è il rifugio Pontese al Pian delle Muande di Teleccio.Dalla Punta di Galisia (3346 m), un monte sulla cui sommità si incontrano i confini di Piemonte, Valle d’Aosta e Francia, si stacca in direzione sud-est un crinale fatto di cime frastagliate e appuntite che culminano nell’imponente bastionata rocciosa delle tre Levanne (3600 m circa): sono le dentate e scintillanti vette che ispirarono l’ode “Piemonte” al poeta Giosuè Carducci che nel 1890 ebbe modo di venire da queste parti mentre presiedeva gli esami di maturità a Cuorgnè.La Granta Parey (3387 m) è la montagna simbolo della Val di Rhêmes: segna il punto più occidentale del parco. Le vette del settore orientale del parco sono più basse; tra di esse spiccano la Punta Lavina (3274 m) e la Rosa dei Banchi (3164 m). Quest’ultima è molto frequentata dagli escursionisti per l’aereo panorama che offre verso la Valle Soana e la Valle di Champorcher.
La fauna del parco
Gli animali dei boschi
Capriolo: è una specie legata alla presenza dei boschi, sia di conifere che di latifoglie; che devono essere però interrotti da frequenti radure. E’ il più piccolo degli ungulati che abitano il parco. Si nutre di erba in misura modesta, mentre prevalgono nella sua dieta gli arbusti legnosi, i semi legnosi e i frutti selvatici. La presenza nel Parco è un evento recente, conseguenza dell’espansione di popolazioni frutto di rilasci a scopo venatorio fuori dal Parco. Le aree maggiormente interessate dalla presenza del capriolo sono quelle della bassa Valle Soana e Orco. Più lenta, ma progressiva, è la colonizzazione delle tre valli valdostane.
Cervo: è un animale che predilige i boschi, ad alto fusto o a ceduo, inframmezzati da radure,campi e prati. Non ama i pendii scoscesi e la neve. E’ il più grande ungulato presente in Italia, con un peso che per i maschi oscilla tra i 160 e i 210 kg. La sua dieta è composta quasi solo da erba, nella stagione invernale frammista a rami e cortecce. Il cervo è giunto nel territorio del parco in seguito alle reintroduzioni fatte in Bassa Valle d’Aosta negli anni 80′. Oggi le densità maggiori si riscontrano in Val Soana.
Cinghiale: è il progenitore del maiale domestico e ha un peso che nel maschio oscilla tra gli 80 e i 150 kg. E’ onnivoro e predilige i vegetali, che rappresentano l’80%-90% della sua dieta. La componente animale è composta da insetti e carogne. La specie non è presente naturalmente nel parco. Essa è comparsa negli anni 80′, con prime segnalazione sul lato piemontese. Attualmente la specie è presente sopratutto in Valle Soana, con le densità maggiori, e nella Valle dell’Orco. Presenze inferiori si registrano nel le valli valdostane, dove interessa aree a latifoglie della Bassa Valle di Rhemes e del Savara.
Gli animali del margine dei boschi
Il gallo forcello ( Tetrao tetrix) vive soprattutto nei boschi di conifere, specialmente nella parte superiore, nei boschi piuttosto aperti e ricchi di sottobosco. Si ciba essenzialmente di bacche e di germogli. La nidificazione della specie è accertata in tutte le valli del Parco, dalle quote minime di 1400 m fino a quasi il limite degli alberi.
Coturnice: Questa specie predilige le fasce di conifere e dei pascoli alpini: terreni scoperti o con alberi radi, in luoghi soleggiati e secchi. Il nido è situato generalmente in depressioni del terreno, riparato da arbusti, ciuffi d’erba o pietre. La presenza delle coturnici è certa in tutte le valli, da 1200 m fino anche a 2950 m.
Gli animali degli ambienti rocciosi d’alta quota
Gipeto: è uno degli avvoltoi europei di maggiori dimensioni e recentemente è tornato a nidificare nel parco. Sulle Alpi è stato reintrodotto negli anni 80′, dopo che si era estinto a inizio 1900. Oggi nell’area protetta sono presenti tre coppie di gipeto. La scelta del Gran Paradiso come luogo di nidificazione non è stata casuale: qui infatti trova una grande abbondanza di fauna selvatica, spazi idonei alla nidificazione grazie alle molte pareti rocciose. Anche la tranquillità ha un suo ruolo: nel parco sono infatti vietati i sorvoli con elicotteri o con altri mezzi. Nel dicembre del 2018 in Valnontey è stata istituita una zona di protezione a tutela di un nido.
Aquila reale: l’aquila reale nidifica sulle pareti rocciose, oltre i 1400 metri di quota; queste devono non essere disturbate da altri animali o dall’uomo. L’aquila reale ha un’apertura alare compresa tra i 190 e i 220 cm. Si nutre principalmente di marmotte, piccoli mammiferi e altri uccelli, così come di giovani ungulati e carcasse. Nel parco, secondo i censimenti, vivono circa 27 coppie di aquile.
Guardando una mappa delle fulminazioni in Europa notiamo subito una situazione di grandi contrasti. Alcune aree presentano un tasso di fulminazioni molto elevato, mentre altre ne presentano uno decisamente basso. In linea generale le aree centrali e meridionali sono molto più temporalesche di quelle settentrionali, così come le terre emerse sono decisamente più temporalesche delle aree marine. In particolare sono sopratutto le aree continentali dell’Europa Centrale ed Orientale ad avere più temporali mentre tutte le zone che ricadono nel dominio climatico atlantico vedono pochi temporali.
Entriamo nel dettaglio
La Penisola Scandinava, le Isole Britanniche e la Penisola Iberica occidentale sono le zone in assoluto meno soggette ai fenomeni convettivi. Quelle più soggette sono l’Italia Settentrionale, la Regione Alpina e l’area Balcanica. I livelli in assoluto più alti si registrano su alcune catene montuose: Alpi ( sopratutto versante meridionale), Carpazi, Balcani. Per quanto riguarda le aree della Penisola Scandinava e le isole Britanniche, molti temporali si verificano in seguito ad episodi caldi associati a masse d’aria calda di origine continentale. In entrambe queste locations le zone caratterizzate da attività temporalesca più frequente sono difatti quelle più meridionali o vicine al Continente, che hanno quindi maggior possibilità di essere raggiunte da aria più calda. Sulle Isole Britanniche ad esempio l’attività temporalesca è quasi assente in Irlanda e Scozia mentre aumenta sensibilmente nell’Inghilterra Orientale e Sud-Orientale, aree dal clima estivo decisamente più caldo. In Svezia, è la regione della Scania a presentare un numero di temporali decisamente maggiore che le aree più a nord. In Norvegia invece tutto il territorio nazionale ha pochissimi temporali, a causa dell’effetto combinato di alta latitudine ( clima freddo) e influenza oceanica.
L’area Alpina: il luogo più temporalesco del Vecchio Continente
Qual’è l’area più temporalesca d’Europa? Bene, c’è l’abbiamo in casa. Il bordo meridionale delle Alpi ( le Prealpi Italiane quindi) è infatti la regione geografica più temporalesca d’Europa!! Studi più approfonditi sembrano rilevare come all’interno di questa vasta regione geografica si riscontrino due aree di eccezionale attività temporalesca: la prima si estende nel Piemonte e nella Lombardia Settentrionali, interessando un’area compresa tra il Biellese e il Lago di Como, passando per Valsesia, Ossola, Lago Maggiore, Varesotto e Canton Ticino Svizzero. La seconda interessa le Prealpi Venete e Friulane e le rispettive pedemontane con picchi analoghi e non superiori ma con estensione probabilmente più ampia (da Vicenza verso est comprendendo Prealpi e pedemontane di Vicentino, Trevigiano, basso Bellunese, Pordenonese e Udinese). Un picco assoluto in quest’area si rileva sulle Prealpi Giulie (che sono anche l’area in assoluto più piovosa d’Italia). Una terza area geografica più isolata e meno estesa che ha picchi di attività temporalesca di assoluto rilievo è quella del Canavese, nel Piemonte Nord-Occidentale. L’attività temporalesca si mantiene però elevata su tutte le Alpi Centro-Orientali, sia italiane sia estere, con fulminazioni molto frequenti anche su Svizzera, Germania Meridionale, Austria e Slovenia. Sulle Alpi Occidentali si hanno valori più bassi, anche se comunque elevati mentre le aree più interne della catena vedono valori decisamente minori ma comunque superiori a gran parte dell’Europa. Le Alpi più interne hanno valori molto bassi, in corrispondenza di bacini a clima estremamente arido, circondati da alte montagne che bloccano i flussi umidi. Tra queste si possono segnalare il Brianzonese, la Valle d’Aosta, Il Vallese, i Grigioni e la Val Venosta.
In questo articolo si tratta della distribuzione dei temporali negli Stati Uniti d’America. Vi propongo questo per due ragioni: 1) la presenza di dati numerosi, attendibili e diffusi, 2) la possenza dei fenomeni temporaleschi in quest’area del mondo. Come parametro di “temporalicità” scusate il termine utilizzerò ancora il numero di fulminazioni, presentandolo su una rappresentazione cartografica.
Considerazioni sulla mappa
A livello generale possiamo notare diverse situazioni generalmente conosciute e pensabili a priori:
Le zone marine sono meno temporalesche di quelle terrestri ( stabilità atmosferica).
Le fulminazioni sono molto infrequenti alle alte latitudini.
Le zone a ovest delle Montagne Rocciose sono assai meno temporalesche di quelle ad est della catena.
Situazioni meno aspettate e molto interessanti sono invece:
Le fulminazioni sono molto presenti sull’Oceano Atlantico, anche a grande distanza dalle coste. Sull’Oceano Pacifico sono quasi assenti al largo delle coste occidentali del Nordamerica.
Nella zona artica e subartica i temporali tendono a spingersi più a nord nella porzione occidentale del continente mentre a est si fermano a latitudine più bassa.
Si nota una correlazione molto scarsa tra catene montuose e fulminazioni. Al contrario dell’Europa le fulminazioni maggiori si concentrano in zone non montuose.
All’interno del Continente uno vastissima area è interessata da livelli di fulminazioni molto elevate.
Come possiamo spiegare questi punti?
Le coste pacifiche sono percorse da una corrente fredda ( la corrente della California) che rende il mare freddo e inibisce la convezione. L’area interna inoltre non è generalmente interessata da temporali a causa della persistente stabilità atmosferica ( anticicloni)
Le zone subartiche canadesi dell’ovest (es. Alberta, Manitoba e altre province delle praterie) sono continentali e quindi favorevoli alla convezione. Queste aree sono raggiunte a volte dalle correnti calde provenienti da Sud ( Golfo del Messico e Grandi Pianure degli Usa). Le zone subartiche ad est sono interessate dalla presenza oceanica dell’Oceano Atlantico e della fredda Corrente del Labrador nonchè dalle gelide acque della Baia di Hudson che rendono il clima estivo più freddo e meno adatto ai temporali.
I temporali negli Usa sono creati frequentemente dallo scontro tra masse d’aria di origine diversa sulle Grandi Pianure ( aria fredda dal Canada e aria calda dal Golfo del Messico) e molto meno dal sollevamento orografico.
Essendo le Grandi Pianure sbarrate a est e a ovest da catene montuose che corrono nel senso dei meridiani l’aria calda e umida riesce a salire indisturbata dal Golfo e a sedimentarsi sulle Grandi Pianure.
Quali sono le aree più temporalesche del Nordamerica?
Le aree più temporalesche sono la Florida, le pianure costiere del Golfo del Messico e le zone centro-orientali ed orientali di Oklahoma e Kansas.
Per eliofania s’intende il numero di ore di sole registrate in una data località in un certo arco di tempo.
L’eliofania dipende da tre fattori:
La durata del dì (ovvero le ore che intercorrono tra l’alba e il tramonto)
La copertura nuvolosa
La presenza di nebbia
I dati sull’eliofania di Mario Pinna (1985)
Secondo i dati composti da Mario Pinna le aree con il maggiore soleggiamento annuo sono in gran parte situate nelle aree costiere e pianeggianti dell’Italia Meridionale. Al contrario le aree con meno ore di sole annuali le possiamo trovare in alcune zone montuose delle Alpi/Prealpi e dell’Appennino Settentrionale.
I valori più alti: più di 2600 ore annue
Simili valori di eliofania si registrano lungo tutte le coste di Sicilia e Sardegna, sulla costa calabrese tirrenica e in alcune aree costiere della Puglia (Golfo di Taranto e costa adriatica salentina). Più a nord vi è ricompresa una zona meno estesa: si tratta dell’Arco costiero compreso tra il Lazio Meridionale e la Piana Campana. Le uniche zone d’Italia abbastanza lontane dal mare dove si registrano più di 2600 ore di sole si trovano esclusivamente in Sardegna e in Sicilia . In tutte le altre regioni queste aree si trovano molto vicine alle coste.
Valori tra le 2400 e le 2600 ore annue
Simili valori si raggiungono in tutta la Sardegna ( che si configura globalmente come la regione più soleggiata) e in tutta la Sicilia, ad esclusione dell’Area Etnea. Altrove simili livelli di soleggiamento riguardano tutte le aree costiere tirreniche dalla Calabria fino alla Foce dell’Arno. Sul versante ionico-tirrenico esse riguardano tutte le coste calabresi e pugliesi nonché gran parte della regione Puglia, ad esclusione dell’Area Garganica.
Al di fuori di questi areali poche aree circoscritte possono vantare simili livelli : il promontorio del Conero ( Marche) e la Riviera Ligure di Ponente più occidentale ( Imperiese).
Valori tra 2000 e 2400 ore
Valori compresi tra 2200 e 2400 ore riguardano tutte le aree interne dell’Italia Meridionale, ad esclusione della Sila e dell’Appennino Campano. Nell’Italia Centrale molte delle zone comprese tra le coste e i rilievi appenninici presentano valori simili ( es. gran parte delle Marche, pianure toscane interne). Al nord valori così elevati si trovano solo lungo tutta la costa ligure, sulla Riviera Romagnola e in alcune aree pedemontane dell’Emilia-Romagna. Valori compresi tra 2000 e 2200 ore si possono incontrare su tutte le aree appenniniche del Centro-Sud e su tutta la Pianura Padana Orientale ( Pianura Veneto-Friulana ed Emiliano-Romagnola). Valori inferiori si registrano sulla Pianura Padana ad ovest di un asse immaginario che congiunge Piacenza con la zona del Lago di Garda. All’interno della zona alpina simili valori si riscontrano anche lungo la Valle dell’Adige.
I Valori più bassi: meno di 2000 ore
I valori più bassi sono inferiori alle 2000 ore e compresi tra le 1800 e le 2000 ore si registrano quasi esclusivamente nell’Italia del Nord, ad esclusione dei Monti Sibillini e del crinale di tutto l’Appennino Emiliano-Romagnolo.
Il luogo meno soleggiato d’Italia è….
Secondo la mappa di Pinna la zona d’Italia con i valori minori è situata ad est di Milano, nella Lombardia Centrale.
Qualche spunto su questo ultimo dato
Rispetto a questo dato è d’obbligo un’importante precisazione: i dati di Pinna risalgono al 1985. In prima battuta si deve considerare come il clima italiano sia cambiato rispetto agli anni 80′ e come quindi i dati oggi possono non essere perfettamente rappresentativi della reale situazione meteorologica. In certi casi lo scarto può essere limitato mentre in altri casi si possono pensare delle differenze anche notevoli. A riguardo merita un’osservazione il dato dell’eliofania di Milano e delle aree ad est della Lombardia Centrale. Tale dato è ricavato dai dati delle stazioni dell’Aeronautica Militare ed è influenzato in particolare dalla bassisima eliofania rilevata durante l’inverno ( appena 1,9 ore al giorno a gennaio e dicembre). Questa eliofania così scarsa è quasi completamente da attribuirsi alla presenza della nebbia, frequentissima in pianura Padana negli anni 80. Oggi, con una presenza di nebbia notevolmente ridotta è lecito supporre che simili valori non siano ormai più riscontrabili, sostituiti da valori decisamente più elevati.